- Andrea Pianigiani
La sindrome di Peter Pan è davvero un problema?

Neverland, un sogno per la vita
“Coraggio dinanzi alla tristezza dei distacchi, alle passioni che selvaggiamente riassaltano e attanagliano, alle cose del mondo che vanno in contrario dei nostri amori e delle nostre speranze, ai dolori che conviene sostenere e accettare e addomesticare e ridurre a compagni severi della propria vita morale. (Croce, 1945)
Sono le sette di una tipica sera di fine estate. La giornata lavorativa ha lasciato il suo sigillo, un forte mal di testa. Così, disteso sul divano alla ricerca di un po' di conforto, accendo la TV con il chiaro intento di non guardare niente. L'unico desiderio è quello di allenare i polpastrelli delle dita sui tasti del super telecomando. Lo stato ipnotico sta quasi per impadronirsi dei miei pensieri quando “inciampo” su Canale 5: “Avanti un'altro”. Questo è il titolo del programma condotto da Paolo Bonolis il quale, seduto su uno sgabello, si rivolge sorridente al concorrente, un signore sulla cinquantina, grassoccio e dalla faccia simpatica. Rosso in viso sta combattendo contro il tempo per impossessarsi di 175.000 euro, deve solo rispondere correttamente ad una domanda: “Chi non ha bisogno delle ali per poter volare? Trilly o Peter Pan?”. Il buffo concorrente per ben tre volte risponde che tale facoltà appartiene alla dolce fatina, perdendo così tutto il suo montepremi. Probabilmente non conosce James Matthew Barrie e la sua più grande creazione.
La nascita del personaggio di Peter Pan ebbe un'articolazione abbastanza complessa. In effetti, quello che è stato definito il principe dei folletti comparve per la prima volta nel 1902 all'interno del romanzo The Little White Bird (L'uccellino bianco), ispirato a Barrie da un gruppo di ragazzini conosciuti durante le passeggiate assieme al proprio cane San Bernardo attraverso i viali dei giardini londinesi di Kensington. L'amicizia, spesso discussa e talvolta al centro di acri malignità, con i cinque figli della vedova Llewellyn-Davies (uno dei quali si chiamava, appunto, Peter come il futuro protagonista di tante avventure), sarebbe risultata fondamentale.Il legame tra lo scrittore, che era peraltro già sposato, con la famiglia, divenne poi talmente saldo che, alla morte di lei, lo scrittore si sarebbe fatto carico dei cinque ragazzini come tutore insieme ad altri familiari suoi e della madre. Il debutto sulle scene teatrali di Peter Pan avvenne due anni dopo, nel 1904. Oggi è il simbolo di un fenomeno che sta crescendo sempre più: “l'ostinata volontà di rimanere bambini” (Cataluccio 1992, 8). E' indubbio che, nelle lingue occidentali, l'aggettivo che impieghiamo per designare il bambino, “infantile”, ha una connotazione decisamente negativa. Siamo abituati a pensare alla mente del bambino come ad una tabula rasa che registra e memorizza le interpretazioni che del mondo gli giungono da parte degli adulti. Un bambino, insomma, considerato quale passivo potenziale contenitore, decostruito a sola memoria. Sono stati impiegati molti secoli per scoprire che l'essere bambino serba una propria specificità: l'arte di comprendere e ricreare il mondo. Il “genio” della fanciullezza sembra venire frustrato durante il corso della vita. Sappiamo che il puer aeternus è stato definito come quella componente eternamente giovanile della psiche umana, quell'anelito incoercibile all'esplorazione del mondo, alla ricerca, al girovagare (Hillman, 1974). Allora, forse, occorre guardare al puer che Peter Pan incarna, non come al modello di un disconoscimento dell'importanza di crescere, ma come allo strenuo difensore di valori e atteggiamenti che solo nell'infanzia sembrano poter essere accettati e pienamente vissuti, perché l'educazione razionalistica dell'Occidente vive con timore quell'eros libero che potrebbe scardinare l'ordine su cui si fonda la nostra civiltà. Paradossalmente, solo conservando certe caratteristiche tipiche del mondo infantile, si può avere un'esperienza della vita in tutta la sua ricchezza. E' ciò che sottolinea un filone di ricerca che ha fatto suo lo slogan Growing young, che significa “Crescere giovani”. Si tratta di un concetto “cui corrisponde un processo che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell'evoluzione della specie umana e nello sviluppo di ogni singolo essere umano “ (Montagu 1981). Si può definire tale processo con lo stesso termine utilizzato dai biologi per descrivere certe anomalie della crescita o arresti di sviluppo, e cioè neotenia, applicandolo – ma in senso positivo – all'uomo capace di conservare nella vita adulta tratti e caratteristiche tipici del bambino. Il termine infatti è stato coniato dal biologo tedesco Julius Kollmann unendo le due parole greche néos, che significa nuovo, e teìno che vuole dire “tendere”, “estendere verso”. Possiamo cioè pensare alla neotenia come a una estensione nel tempo del processo di sviluppo dei tratti fetali. Il primo ad applicare tale concetto allo specifico umano fu H.Ellis (1901-28), ma fu l'olandese Louis Bolk a rendersi conto che, in confronto al ritmo di sviluppo degli altri primati, quello dell'uomo era chiaramente ritardato. Tale ritardo aveva consentito la crescita di un cervello più grande e più complesso, mentre il prolungato periodo infantile dell'uomo, causato dalla necessità di tempi maggiori per lo sviluppo e l'acquisizione dell'autonomia, non solo consentiva più forti e prolungati investimenti affettivi, ma era la conditio sine qua non di una educazione basata sul linguaggio, e dunque un maggiore apprendistato alla vita, che si rivelava preziosissimo per la salvaguardia e l'adattamento della specie all'ambiente. Tutto ciò, ovviamente, non vuol dire che dobbiamo restare bloccati allo stadio infantile dello sviluppo, ma che anche, e soprattutto psicologicamente, il bambino possiede determinati tratti e qualità che occorre conservare, e che invece la pratica educativa tende a reprimere. La società moderna propone, oggi, un modello di adulto che non conosce l'entusiasmo, che non stimola la propria curiosità, che stenta a meravigliarsi, a godere del presente, che ha vergogna a dare libera espressione alla sua emotività, piange segretamente e ritiene una prova di autonomia il non chiedere mai agli altri una carezza, una parola di conforto. Esitiamo ad esprimere i nostri bisogni, giudichiamo infantile il gioco, l'attività immaginativa, e releghiamo tra gli svaghi del tempo libero attività come la danza o il suonare uno strumento che, invece, altre culture utilizzano come espressione fondamentale della loro ritualità e della loro tradizione (Carotenuto, 1995). E' come se fossimo tutti stipati nella Camera dei Pari (luogo all'interno dei giardini di Kensington): “...è il ritrovo di personcine superiori, a cui è proibito di mischiarsi col volgo dei mortali, ed è chiamata così appunto per questo...l'un Pari saluta l'altro al suo arrivo dandogli compostamente la mano e domandandogli notizie della sua salute! Mai un grido, mai un gioco movimentato: e parlar sempre in punta di forchetta.” (J.M Barrie). Forse Peter Pan tutto questo già lo sapeva, ciò che forse non poteva prevedere è che molti lo avrebbero ricordato per la sua “storia” con Wendy o per le sue avventure contro l'acerrimo nemico Capitan Uncino, lasciando invece scivolare tra le pagine il suo vero dramma interiore. Peter scappò da essere una creatura umana quando aveva sette giorni, volò dalla finestra fino ad arrivare ai Giardini di Kensington. La sua è una storia triste, travagliata, che racconta di un bimbo “intrappolato” tra il desiderio di tornare a casa dalla mamma e la voglia di rimanere tra le fate a suonare la zampogna. Un conflitto interiore che, una volta compreso, si scontra con la dura e cruda realtà di una madre che non lo attende più, che lo ha “sostituito” con un fratellino. Direi che tutto ciò assomiglia più ad una fiaba dal risvolto drammatico che ad un'opera allegra che riconcilia con l'idea della spensieratezza infantile. Come potrebbe essere altrimenti. Sbirciando nella vita di Barrie scoviamo il trauma che ha dovuto affrontare da bimbo e che , forse, fa luce su molti aspetti nascosti tra le righe del racconto. L'autore, all'età di sette anni (coincidenza? Sette giorni come l'età di Peter dalla sua “partenza”?), perse il fratello maggiore di nome David (come uno dei personaggi principali del libro), nonché il prediletto della madre, la quale cadde in una profonda depressione. James, per placarle il dolore, assunse i panni del fratello defunto: vestiva come lui, si atteggiava come lui. Adesso, immagino, sia più chiaro il motivo per cui l'opera di Barrie sia permeata da un così forte rapporto “simbiotico” (e ambivalente) con la figura di attaccamento. A tale proposito credo sia interessante approfondire le dinamiche che muovono la “lotta” interiore di Peter. Fin dal momento della nascita il bambino dà inizio ad una esplorazione attiva dell'ambiente che lo circonda, attraverso l'uso dei sensi: il tatto, l'udito, l'olfatto, la vista e persino il pianto. “Esplorazione” deriva infatti dal latino explorare, composta dal verbo plorare, che significa “piangere, gridare”, e del prefisso ex, cioè “fuori da”. Il primo ambiente che il bambino esplora è la madre: esplora il suo volto, segue i suoi movimenti, indaga col tatto le sue mani e il suo corpo, la riconosce. E' all'interno del rapporto originario madre-bambino che quest'ultimo acquisterà i modelli di comportamento verso il mondo che potranno essere caratterizzati da un atteggiamento positivo, di sicurezza e fiducia nei confronti dell'ambiente esterno o, al contrario, di paura, sfiducia e fuga dall'ambiente. Lo sviluppo della motricità e della locomozione renderanno poi il bambino in grado di separarsi, di allontanarsi fisicamente dalla madre. Questo è un momento di decisiva importanza, perché viene vissuto in maniera ambivalente: separarsi dalla madre, e in parte disinvestire quello che è il primo oggetto d'amore per riversare le proprie energie libidiche all'esterno della coppia, crea da un lato una forte eccitazione, dall'altro alimenta il timore di essere abbandonati dalla partner e di essere puniti (Carotenuto, 1995). La Mahler, al riguardo, parla di paura di essere “reinghiottiti” nell'alveo materno che diventa una minaccia alla differenziazione individuale. Scoprire, inventare, esplorare, viaggiare, e ricercare sono tutte attività che traggono origine dalla mentalità esplorativa del bambino, dal piacere, assecondato dall'adulto che lo cura, di fare conoscenza con il mistero del mondo, con i suoi territori sconosciuti. Questa caratteristica neotenica del bambino andrebbe conservata anche in età adulta, nel suo significato di partecipazione attiva al mondo, di curiosità nei confronti del nuovo e del diverso, di disponibilità a esplorare nuovi territori mentali, e di allestire nuove modalità di rapporto con ciò che è altro da noi. Allora possiamo rileggere insieme Peter Pan spogliandolo dai panni di colui che non vuole crescere, da quel senso comune che lo scomoda tutte quelle volte che un adulto in difficoltà viene tacciato di poco realismo, di non riuscire a “tenere i piedi per terra”. Proviamo a vestirlo con abiti nuovi, di colui invece, che tenta disperatamente di trovare un senso laddove nessuno osa immaginare che possa esserci. E' Peter che naviga sul suo nido di tordo intorno all'isola che non c'è, alla scoperta dello “stra-ordinario”. Fu Platone per primo a definire la meraviglia e a indicarla come causa del desiderio di capire e approfondire, come radice della conoscenza. E' in virtù della meraviglia che gli uomini cominciarono ad ammirare il creato, e in forza di questa ammirazione sorsero i primi quesiti intorno alle cose. Filosofo per Aristotele è “colui che dubita e ammira” (Metafisica). Il piccolo Peter potrebbe forse essere un inno alla “libertà di scoprire”, un grande “gioco sulla vita” che ha scelto i giardini di Kensington come scenografia. Aprendo il sipario potremmo intravedere un gioco come “attività di confine”, né dentro né fuori, né vero né falso, non pura soggettività, ma neppure comportamento cui si possono applicare i comuni criteri di oggettività. Un'illusione benefica, dunque (non a caso dal latino ludere, giocare). Anche l'analisi potrebbe essere un gioco nel senso che propone al paziente di “giocare due parti in commedia”, di essere colui che soffre, ma anche colui che osserva la propria ferita assumendo lo sguardo che l'analista gli presta. La situazione cui l'analisi dovrebbe portare è simile a quella del bambino che nel gioco si lascia inseguire dagli assalitori, provando l'angoscia di chi è braccato, ma con la garanzia di potersi sottrarre alla presa interrompendo il gioco. Ma ludus è anche lo scherzo e lo scherzo cela un “inganno”. Allora è proprio in questa confusione, in questo entrare e uscire dalla realtà che sta la dinamica del gioco. E' la possibilità di una doppia esperienza, dove il manico della scopa è anche un cavallo bianco, e una vecchia sottoveste è un abito da sposa. Lo spazio cognitivo del “come se” non è soltanto il dominio caratteristico del gioco, ma molto di più: è il fondamento della creatività del pensiero umano, la capacità simbolica (Carotenuto, 1995). Nell'andare oltre la realtà, la fantasia può restituirci una versione più esasperata e caricaturale della realtà, ma in molti casi più veritiera e profonda. Ah, quasi dimenticavo! Mi rivolgo al buffo concorrente del quiz di Canale 5 sapendo benissimo che non riuscirà mai a sentirmi o leggere il mio labiale attraverso lo schermo. Vorrei dirgli che “...E' una cosa meravigliosa che egli potesse volar senza ali, ma sentiva alle spalle un prurito tremendo e... e... forse che tutti quanti potremo volare, se avessimo così profonda fiducia nella nostra capacità di farlo, come l'aveva l'audace Peter Pan quella sera.” Spesso ciò che ci manca è il coraggio di restare bambini pur essendo diventati degli uomini.
L'isola che non c'è
Seconda stella a destra questo è il cammino,
e poi dritto fino al mattino poi la strada la trovi da te, porta all'isola che non c'è.
Forse questo ti sembrerà un strano, ma la ragione ti ha un po' preso la mano.
Ed ora sei quasi convinto che non può esistere un'isola che non c'è.
E a pensarci, che pazzia, è una favola, è solo fantasia
e chi è saggio, chi è maturo lo sa: non può esistere nella realtà!
Son d'accordo con voi,
non esiste una terra dove non ci son santi né eroi
e se non ci son ladri, e se non c'è mai la guerra,
forse è proprio l'isola che non c'è ... che non c'è.
E non è un'invenzione e neanche un gioco di parole
se ci credi ti basta perché poi la strada la trovi da te.
Son d'accordo con voi, niente ladri e gendarmi,
ma che razza di isola è? Niente odio e violenza,
né soldati, né armi, forse è proprio l'isola che non c'è ... che non c'è.
Seconda stella a destra questo è il cammino,
e poi dritto fino al mattino non ti puoi sbagliare perché quella è l'isola che non c'è!
E ti prendono in giro se continui a cercarla,
ma non darti per vinto perché chi ci ha già rinunciato
e ti ride alle spalle forse è ancora più pazzo di te!
E. Bennato